marzo 25, 2012

La scemite

La scemite è una malattia meravigliosa che ho avuto spesso in passato e dalla quale temevo di essere guarito.
Come funziona? Ti svegli la mattina e ti dimentichi l'età, le cose da pagare, tutti i guai, i doveri, non hai alcuna remora nel lasciarti andare alle parti più stupide del tuo pensiero. E giochi, con quello che ti piace. nel mio caso sono i video stupidi.
Da qualche settimana, sia lodato Joe Pesci, la scemite è tornata. Probabilmente se ne ripartirà e mi ricorderò di avere quasi cinquant'anni ed un sacco di persone intorno che si aspettano che faccia cose (abbastanza) intelligenti.
Intanto però, oggi, ho fatto questo:



marzo 23, 2012

Cercando dio a Rosate (Mi)



Essendo idiota dentro, mentre lavoro alla nuova serie e scrivo e sceneggio etc. etc. mi è venuta fuori questa cosa.
Credo che sia l'effetto di due giorni nella pianura padana senza avere molto da fare.

marzo 16, 2012

S.h.a.d.o


A me fanno schifo i Kinder Delice. Anche gli omogeneizzati al manzo, per dire la verità. Mi piacevano molto quando ero piccolo. Li mangiavo guardando i telefilm di Ufo, seduto sul tappeto, con il comandante Straiker, e quel momento per me, con il mio omogeneizzato al manzo mangiato davanti alla sede centrale della S.H.A.D.O, era il paradiso. Ho provato ad assaggiarli da adulto, per poco non vomito.
Bene. Si è offeso qualcuno?

Michele Serra ha scritto che Twitter gli fa schifo. A me non me ne importa assolutamente niente. Twitter non mi fa più schifo del telefono, o del freno a mano dell'automobile. A volte li uso entrambi, ma non nutro per essi un affetto fraterno e se qualcuno mi dice che odia il freno a mano, non mi offendo. Magari penso: ok bello, ci vediamo su una strada in discesa, a parcheggiare, ma non ne faccio una questione personale.
Oggi molti utilizzatori di Twitter erano inferociti nei confronti di Serra. 
Eppure, sono quasi sicuro, nessuno di loro ha una partecipazione negli utili dell'azienda Twitter e credo che pochi siano pure gli sviluppatori del software in questione. 
Allora perché, noi moderni, difendiamo i prodotti che utilizziamo? Davvero ci identifichiamo in loro tanto da indignarci se qualcuno li disprezza?
E se è così, se diventiamo fratelli di un oggetto,  siamo sicuri che sia una cosa che ci fa bene?

marzo 14, 2012

Mini mini mini trailer

Seguirà un trailerone da sedici minuti, che spero dia l'idea della storia. Intanto questo pezzettino. Un'idea per una serie che ho inventato insieme a Roan Johnson. Abbiamo girato tre giorni con una macchina nuova, una Canon c300, sopratutto per testare metodi e flusso di lavoro.

marzo 12, 2012

Penne a china

Giorni di montaggio sui trailer de "La teoria dei tre colpi". Molto divertente. Serve un mac pro nuovo.
Mercoledì sarò a Cinecittà alla presentazione della nuova Canon C300, con la quale ho girato queste prime parti della serie che spero di riuscire a mettere in piedi.
Presto i trailer saranno disponibili.
Mentre lavoravo mi hanno chiamato da La Repubblica per chiedermi due parole su Moebius. Questo è quello che ho scritto. L'articolo è uscito sul numero di domenica.


Momento uno.
Sono nella mia stanza a disegnare. C’è una grande finestra con una tapparella marrone. La tapparella è aperta ed oltre la siepe si vede la casa dei Rossi. Una villetta dalle pareti bianche, immacolate. In quelle pareti, con Alberto, senza motivo lanceremo delle uova. Ma in altro momento. 
Questo è il momento uno.
Sotto la finestra aperta c’è una scrivania. Un foglio Fabriano A4. Delle matite, delle penne a china. Ho quindici anni. Quella finestra sta nella mia camera. nella casa dei miei genitori. C’è un armadio pieno di disegni. Li abbiamo fatti io e Alberto. Alberto è più bravo di me. Tempo dopo smetterà di disegnare per non farmi soffrire.
Le penne a china. Tormento. C’è un negozio di materiali da disegno, in centro. Vado, guardo, scelgo le penne a china. Cerco di scoprire un segreto. C’è un disegnatore francese che credo utilizzi quelle penne a china. Io voglio disegnare come lui, o almeno, mettermi tecnicamente nella stessa condizione. Ho quindici anni e, ingenuamente, penso che possa derivare dalla penna usata, anche dalla penna usata, quella capacità.
Torno a casa. Provo le penne. Il tratto in effetti è simile a quello dei disegni del francese. Provo a fare un orizzonte basso in terra desertica. Un personaggio con pantaloni a sbuffo che cammina nei pressi, indossa un cappello lungo in testa, di forma coloniale di colonia di Saturno. Faccio ombreggiature a tratto intermittente. E’ così che fa il francese. Provo a fare lo stesso. Crolla il morale. 
Momento due.
Ho diciassette anni. C’è un disegnatore italiano molto giovane e di incredibile talento, usa lo stesso tipo di ombreggiature del francese, ma poi piega lo stile a mano sua ed i suoi nasi hanno ombre autonome. Lui ci è riuscito. provo. Forse questa nuova penna a china mi potrà aiutare. Niente.
Il francese disegna spesso linee di orizzonte basse, è come se avessimo gli occhi a terra. I piedi dei suoi personaggi, quando non vanno in aria per sconfitta della gravità, aderiscono alla linea di terra. Sono steso a guardare quei piedi. I corpi. le mani. Le dita delle mani. le unghie.
Ogni particolare è definito con lo stesso tratto. Credo che sia merito di una penna a china particolare. Non cambia mai spessore. Devo trovare una penna che dia lo stesso risultato. Voglio disegnare come quel francese. Mettermi, almeno, nella stessa condizione tecnica. Che carta usa? Forse usa un pennino?
Ho passato tutta la mia giovinezza di disegnatore in sofferenze e ricerche di questo tipo. La prima ossessione furono i disegni impareggiabili del francese. Quel francese si era dato il nome di Moebius. Solo più tardi venne il cuore di Andrea Pazienza a tormentarmi. Credo che ogni disegnatore abbia combattuto guerre simili. Guerre impossibili contro gli Dei. Guerre d’amore, per lo più. 
Incontrai Pazienza negli anni ottanta. Agli inizi. Scoprii così che Dio aveva gambe e braccia come me. La guerra poteva cominciare. L’amore, il nemico, erano stati identificati. C’era una speranza.
Momento tre.
Quasi venticinque anni dopo. Sono in Francia. Ad Angouleme. Ho vinto un premio prestigioso e senza accorgermene sono già carico di presunzione. Tutti mi trattano bene. Sono in un hotel dove si entra solo con invito. A un tavolino, vicino a me, c’è Joann Sfar, un grande disegnatore francese, giovane. Una vera star, nel suo paese. Arriva un uomo di una certa età, un signore dall’aspetto gracile e raffinato. Si siede al tavolo con il giovane autore che non nasconde il suo piacere per l’onore ricevuto.
Il giovane Sfar mi chiama. Il mio francese è appena nato ma capisco. Mi fa sedere al tavolo con lui ed il signore anziano. Il signore anziano è Moebius.
Lui era Dio per me. Voglio che lo sappia. Non so come dirlo, non in francese. Lo dico in italiano.
Che cosa brutta: “Era” Dio. Era? Forse che Dio può avere una scadenza, passare di moda? Essere superato? Ho appena vinto un premio prestigioso e la vanità, senza che me ne accorga, ha già cominciato a masticarmi l’anima. 
Sfar mi chiede un disegno su un agenda. Devo disegnare qualcosa, davanti a Moebius. Davanti a Dio. Grande imbarazzo. Ma sarò anch’io una star, un giorno. Ho vinto un premio prestigioso. Vanità.
Disegno quindi, con una penna sottile che non è a china ma da un risultato simile. Ho questo stile di disegno, rappresento ogni parte dell’immagine con la stessa dimensione di tratto. L’uomo anziano, al tavolino, lo faceva quando avevo quindici anni. Adesso io ne ho più di quaranta.
Faccio questo disegno, un personaggio del libro che mi ha fatto guadagnare il premio. Moebius mi guarda e sorride. L’agenda di Sfar ha una carta terribile, dove l’inchiostro non s’attacca e genera spiacevolissime goccette in testa e in coda ad ogni tratto. Lo maledico, dentro di me. E poi mi trema un po’ la mano, perché è mattina, ho fatto colazione da poco e ho ancora sonno. Devo mettere gli occhiali.
Sto facendo un esame con Dio. Il personaggio fuma. Tiene la sigaretta alla bocca e aspira una boccata. Disegno mignolo e anulare quasi attaccati, per qualche motivo di stile che non so spiegare non disegno divisione tra queste due dita, mignolo e anulare sono una forma sola, per lo stesso vizio di stile non metto le unghie a queste due dita. Ecco. Una striscia di fumo dalla sigaretta fino al bordo della pagina e il disegno è finito. 
Dio lo guarda, prende la mia penna, sorride ed aggiunge sul foglio le unghie mancanti.
Poi dice qualcosa in francese, che non capisco, ma sorrido. Falso.
Dentro di me la vanità, innescata da quel maledetto premio prestigioso mi suggerisce che un vecchio ha fatto le unghie al mio disegno, perché quel vecchio ha uno stile antico, sorpassato, che ignora il mondo contemporaneo, che si è scollato, che ha avuto il suo momento di gloria e che è passato, e guarda come si manifesta, sulla carta, la sua distanza: due unghie dove non ce ne sarebbe alcun bisogno. Chi ha necessità di quel dettaglio? Cosa racconta? cosa aggiunge? Il mondo è cambiato e adesso siamo noi giovani a dettare le regole, a creare gli stili. Vanità.
Momento quattro.
C’è un ragazzo a un tavolo da disegno: Per qualche motivo ignoto il suo cuore l’ha portato al foglio, lasciando l’xbox per un poco almeno, da parte. Non sta scrivendo il suo stato su facebook. Sta disegnando. Ha comprato una penna nuova. Ha un libro che gli ha dato qualcuno, il libro di un disegnatore francese con delle tavole di una bellezza accecante. Non si riesce quasi a tenerci gli occhi sopra. Fissare lo sguardo ad un singolo disegno è difficile. Quella bellezza respinge e spinge avanti. Poco male, comunque, è un fumetto. Dopo un disegno ce n’è un altro.
Il ragazzo guarda e si sofferma sulla mano di un personaggio che per qualche motivo si è librato a mezz’aria. Lo si vede da un punto di vista basso sul terreno. Da una prospettiva che il ragazzo non può che definire “difficilissima” si vedono le suole degli stivali, lo scorcio del viso e la testa con un cappello da coloniale di Saturno. Le mani hanno anatomie perfette, le dita sono in posizione sospesa, a suggerire movimento, per sempre. Alla cima delle dita ci sono unghie ben definite. Il ragazzo prova a rifarle. Non riesce. Soffre e l’xbox lo chiama come una sirena senza pensieri. Ma lui resta al tavolo da disegno. Ci riprova. Ama quel disegnatore francese. Tutto quel talento, lo ama tanto da detestarlo con tutto il cuore. Un giorno. Continuando a provare. Un giorno riuscirà.


marzo 02, 2012

Io e Penco

Sabato 3 marzo (domani, per lo scrivente) alle 12,30 alla libreria delle Moline (via delle Moline 3, Bologna) sarò a presentare il nuovo libro di Michele Penco, "Racconti azzurri".
Michele è bravissimo e troverete una mostra dei suoi originali, che sono roba da levar il fiato. 
Quindi, venite.

marzo 01, 2012

La Teoria dei tre colpi

Un giorno ho scritto una lettera ad una ditta che noleggia apparecchiature cinematografiche, a Milano. Volevo provare a girare delle cose con una digitale seria, con un rig serio e degli obiettivi seri. Ho fatto due conti, potevo affittare le cose per due o tre giorni. Volevo fare un esperimento. Un cinemino leggero, di rapida messa in moto e di costi bassi.
Però sono un ragazzo fortunato ed alla mia lettera è arrivata la risposta di una persona che conosceva il mio lavoro ed abbiamo cominciato a parlare. Ci siamo incontrati ed abbiamo fatto amicizia.
Qualche settimana più tardi stavo andando a Roma a portare una sceneggiatura a Fandango. In treno ho avuto un'idea per una serie a puntate. A Roma, ho pranzato con il mio amico Roan Johnson, gli ho raccontato l'idea e mentre gli zucchini cuocevano ci siamo messi ad inventare e raffinare la storia.
La Teoria dei tre colpi era il titolo provvisorio. Ma sta ancora là.
Le persone di Milano alle quali avevo scritto la lettera sono venute da Milano, con una Canon C300 e un set di obiettivi Zeiss compact Prime (questo lo specifico per i maniaci come me).
In verità avevano un furgone pieno di attrezzatura. Una piccola troupe.
Ho mobilitato tutte le persone di buona volontà che conosco in zona. Ho chiamato Gabriele Spinelli (L'ultimo terrestre) e Lino Musella, un giovane, bravissimo, attore napoletano. Gli ho raccontato la storia, ho spiegato che non c'era una lira e tutto il contorno.
Abbiamo girato per tre giorni, una specie di trailer, scene da vari momenti della storia. Un test tecnico e artistico. Un esperimento di autoproduzione.

Finalmente la macchina da presa l'ho tenuta in mano io. Non potevo proprio più farne a meno. Per me è stato strano scrivere il primo film e non maneggiare la cinepresa. Era come far disegnare ad un altro, oppure conquistare una bella ragazza e poi al momento di farci l'amore, chiamare un altro, che magari sarà pure più bravo, però, insomma..
E questo non ha niente a che vedere con la qualità dell'operatore, anche perchè il mio sul film, era splendido. E' proprio una questione di taglio e di stile, oppure una cosa sessuale, fate voi.
In questi giorni ho montato il trailer. Una specie di riassunto di tredici minuti. Sono molto contento. Presto sarà disponibile per la visione. Intanto alcune immagini.